Da tempo il tatuaggio di tipo tradizionale è tornato alla ribalta, quasi come fosse di moda: lo vediamo sia ai bracci di persone tatuate da tanto tempo che di ragazzini al primo tattoo.
Ma da dove deriva questo tatuaggio tradizionale? E davvero stiamo seguendo la strada giusta?
Il tatuaggio italiano nasce nell’esercito e nelle prigioni, a differenza di quello fatto ai marinai inglesi. Nasce dalla polvere, e nella polvere cresce fino a divenire una moda fra i ceti più poveri o vicini alla criminalità.
In questo articolo parleremo di uno studio svolto da Emanuele Mirabella sulla presenza dei tatuaggi nei domiciliati coatti dell’isola di Favignana.

Mirabella, come medico del “campo di prigionia”, ebbe la possibilità di annotare i vari disegni e di chiederne il significato ai possessori. La sua è una ricerca certosina, e rappresenta un’importante sfaccettatura del mondo dei tatuaggi dei primi del Novecento, poiché i “domiciliati coatti” erano criminali che venivano da tutta Italia e portati su questa isola per tenerli lontani dalle loro terre d’origine.
Su oltre 650 detenuti, la percentuale dei tatuati si avvicinava al 47%: una media altissima per uno studio scientifico.
Dato che la maggior parte dei prigionieri veniva dal sud, all’epoca più arretrato culturalmente, il tatuaggio era presente con prepotenza: al nord Italia, almeno nelle carceri, il tatuaggio non arrivò mai a diventare una moda o almeno ad influenzare un’ampia porzione di carcerati come a Favignana.
Il Dott.Mirabella divise i tatuaggi in base al contenuto e alle immagini. La maggior parte di essi erano tatuaggi osceni ed erotici, e ciò dipendeva sia dal fatto che i detenuti, quando erano in libertà, erano dediti a una vita lasciva e dettata dal vizio sessuale, sia dalla mancanza di sesso fra le mura carcerarie (o, almeno, del sesso eterosessuale).
Il 13 % dei tatuaggi erano di tipo affettivo, con cuori, vasi di fiori, iniziali dei familiari o della donna amata; il 18% dei detenuti aveva tatuaggi religiosi, con croci, immagini della Madonna (specie quella di Loreto), basiliche che indicavano la loro provenienza, santi e rappresentazioni di Gesù.
Una componente importante del tatuaggio era il suo aspetto politico: fra i più tatuati in questo senso vi erano gli anarchici, con scritte verso il potere e lo Stato, e il comunissimo “W.A”, ovvero “Viva l’anarchia”.
Oltre la metà dei tatuaggi si trovava disposta su arti superiori e inferiori, il 20% sulle spalle e il petto, e il 27% sul dorso e sulle dita delle mani.
I detenuti iniziavano a farsi tatuare in giovane età, tra i 15 e 20 anni, dalle braccia, vicino la spalla, perché li il tatuaggio era meno doloroso, fino a scendere al petto e l’addome che potevano essere tatuati solo in età adulta, o meglio, sopra ai trent’anni.
Le carceri erano vere e proprie officine del tatuaggio, insieme ai campi di correzione per soldati: era fatto per puntura utilizzando sostanze coloranti come la polvere prodotta dalla fiamma delle lampade ad olio, la carta bruciata, o la polvere da sparo.
Si usavano aghi, e non le spille perché per superstizione erano considerate velenose.
Il tatuaggio all’epoca era utilizzato per imprimere un ricordo, o esprimere la propria professione criminale o credenze agli altri detenuti. Proprio per questo fu studiato nelle carceri, come a recensirli per capire i criminali e le loro malefatte. Detto fatto. Il tatuaggio, ora utilizzato dalle questure per catalogare i criminali come un marchio, diventò pesante da portare, e molti criminali cercarono di cancellarseli con acido o con scarnificazione.
Dalla moda all’oblio, dal vanto alla vergogna, da linguaggio segreto a schedatura della polizia, il tatuaggio nelle carceri diminuì, anche se molto lentamente, soprattutto fra i criminali che desideravano ritornare in libertà e non rientrare più fra le gelide mura delle patrie galere.
Pierpaolo Pinto – Lucia Elisei
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